Continuiamo la nostra opera di debunking delle varie informazioni false o errate che girano sul siciliano: in questo articolo “smontiamo” un’altra leggenda piuttosto famosa che ha a che fare sempre con l’origine non solo del siciliano, ma anche dell’italiano.
Non è raro leggere in giro per il web, passando da articoli su blog a semplici commenti degli utenti dei social network, che il siciliano ha dato origine all’italiano. Ma è davvero così? Per rispondere riguardiamo un attimo la storia letteraria e non del nostro Paese.
Sebbene sarebbe preferibile non usare il termine ‘Medioevo’, qua lo useremo per semplice comodità data dalla convenzione delle date stabilite in Italia per questo particolare periodo storico. Il Medioevo viene tradizionalmente suddiviso, almeno in Italia, in due parti: l’Alto Medioevo (dal 476 d.C. al 1000 circa) ed il Basso Medioevo (dal 1000 circa al 1492). Per la scrittura e la lettura in generale questo periodo storico rappresenta un periodo di crisi generale, e lo notiamo non solo dall’esiguità di documenti scritti, ma anche ad esempio dall’aspetto assunto dai libri: visti come oggetti preziosi, questi erano spesso finemente decorati e messi in esposizione. È questa stessa finezza di decorazioni a farci capire che la lettura doveva essere vista più come un’attività per le élite. Nel Basso Medioevo però le testimonianze materiali ci inducono a pensare ad un’inversione di rotta nelle pratiche della scrittura e della lettura, con materiali meno raffinati perché probabilmente il maneggiamento della carta doveva essere diventato un po’ più diffuso. Ciò non toglie ovviamente che la carta rimanesse comunque un bene prezioso. Da vari resti materiali desumiamo anche che la pratica della scrittura presso la gente comune fosse in qualche modo in ripresa.
Il Basso Medioevo, con la sua, seppur non paragonabile a quella odierna, crescita dell’alfabetizzazione, rappresenta il momento in cui i vari volgari romanzi cominciano a produrre in modo sempre più consistente testi redatti appunto in queste lingue. In area italiana vediamo che ciò si verifica a macchia di leopardo: dopo un timido esperimento condotto con il cosiddetto “Indovinello veronese” (VIII-IX secolo), un breve testo redatto in una lingua a metà tra il latino ed il veneto, troviamo nella seconda metà del X secolo nell’area del capuano, in Campania, i “Plàciti cassinesi”, brevissimi testi di carattere giuridico redatti in una lingua che ormai di latino ha ben poco. In tutta la Penisola è un vero moltiplicarsi di brevi testi, iscrizioni varie, ed epigrafi. Bisogna aspettare il XIII secolo per dei testi un po’ consistenti, ascrivibili a diversi generi, dall’allegorico-didattico al morale, fino alla letteratura religiosa, che vede la nascita del genere della lauda, ossia la lode alla divinità cristiana.
I generi ed i testi sopra citati ovviamente non facevano capo a movimenti letterari organizzati, per la qual cosa, e qua entriamo nel vivo dell’argomento che ci interessa, bisognerà aspettare l’avvento della Scuola Poetica Siciliana (nome dato a posteriori), messa in piedi da Federico II Hohenstaufen all’incirca nel trentennio che va dal 1220 al 1250: si trattava di un gruppo di burocrati della corte federiciana che avevano preso a comporre liriche di tema amoroso utilizzando un siciliano abbastanza codificato. I temi trattati non erano temi originali ma mutuati dalla lirica provenzale, i cui autori avevano trovato alloggio alla corte di Guglielmo II già dalla seconda metà del XII secolo.
Purtroppo tutti i testi tranne uno ci sono pervenuti come adattati perlomeno secondo il vocalismo toscano: ciò significa che i testi originali scritti in siciliano sono andati perduti e quelli che conosciamo noi non sono altro che degli adattamenti di copisti toscani, che adattavano il vocalismo seguendo le regole della propria pronuncia. Quanto avete appena letto è tuttavia una scoperta di non troppi decenni fa, e per molto tempo si è creduto quindi che gli adattamenti fossero gli originali. Una spia che ha portato a questa scoperta è stata la famosa rima siciliana, ritenuta inizialmente un particolare tipo di rima, e rivelatasi poi frutto di un’incongruenza tra il vocalismo siciliano e quello toscano dei copisti (in particolare, questa rima si manifestava dove nell’originale siciliano ricostruito avremmo avuto una rima perfetta).
Questi componimenti diventeranno poi famosi in tutto il Bel Paese, e dopo il 1266 (Battaglia di Benevento) l’epicentro letterario principale del Paese si sposterà dalla Sicilia, dove la Scuola Poetica Siciliana si era estinta in seguito alla sconfitta di Manfredi, figlio di Federico II, alla Toscana, dove verranno ripresi i temi della SPS che verranno affiancati da nuovi temi derivati dalla crescente esperienza comunale. Nella stessa Toscana fiorirà anche il Dolce Stil Novo, nato a Bologna con Guido Guinizzelli.
Adesso giungiamo alla spinosa questione: Dante Alighieri viene riconosciuto universalmente come il padre della lingua italiana. Ma a questo punto sembrerebbe lecito chiedersi: Dante Alighieri ha copiato dalla Scuola Siciliana a tal punto che i suoi scritti possono effettivamente considerarsi degli scritti in siciliano? E se Dante in realtà scriveva in siciliano e non in toscano, ed in seguito tutti copiavano o si rifacevano a lui, ciò significa che ad essere diventato italiano è in realtà il siciliano e non il toscano?
Queste che vi sono state riproposte appena sopra sotto forma di domande retoriche sono in realtà asserzioni senza fondamento fatte da chi sostiene la teoria della lingua italiana ex siculo. È lampante che chi si abbandona liberamente a queste asserzioni non conosce né la filologia della nostra area, né i lavori di Dante, né i lavori della Scuola Siciliana.
Facciamo innanzitutto una considerazione: le differenze tra singole lingue aumentano col passare del tempo; di conseguenza, più torniamo indietro nel tempo, più le varie lingue d’Italia si assomigliano. Ne deduciamo che ai tempi in cui la Scuola Siciliana operava, il siciliano ed il toscano si assomigliavano molto più che oggi – senza tenere in considerazione ovviamente la pressione esercitata dall’italiano dall’alto del suo essere lingua di superstrato.
Una prima, banalissima caratteristica che rende il siciliano ed il toscano due sistemi autonomi è il vocalismo. Prendiamo alcuni versi del componimento di Stefano Protonotaro Pir meu cori alligrari, unico testo giunto sino a noi non in forma adattata dai copisti, toscani, e vediamo come sarebbero se il vocalismo fosse stato adattato.
(Originale siciliano / Versione ipotizzata toscaneggiante)
Pir meu cori alligrari / Per meo core allegrare chi multu longiamenti / che molto longiamente senza alligranza e joi d’amuri è statu / senza allegranza e gioi d’amore è stato mi ritornu in cantari / mi ritorno in cantare
Andando ad analizzare il vocalismo delle opere di Dante, questo rispetta sempre quello toscano.
Bisogna dire, ad onor del vero, che l’influenza siciliana sui poeti toscani anteriori a Dante fu maggiore addirittura di quella provenzale. Ghinassi (1970) scrive:
L’influsso di questa koinè poetica fu subito notevolissimo in Toscana. I cosiddetti poeti siculo-toscani, che, con a capo Guittone d’Arezzo e Bonagiunta da Lucca, raccolsero l’eredità dei siciliani, ne accolsero anche, per larga parte, il linguaggio, divenuto in breve tempo il linguaggio lirico per eccellenza, una specie di superlinguaggio a uso del poeta, come lo era stato e, in parte, lo era ancora la lingua provenzale (…) I poeti fiorentini che precedettero immediatamente la generazione di Dante (da Chiaro Davanzati a Monte Andrea a Brunetto Latini) non escono linguisticamente da questo quadro. Le loro poesie pullulano e, a volte, traboccano di sicilianismi.
Ma non va dimenticato che la base dell’italiano odierno tuttavia non è da ricercare nei poeti siculo-toscani o nella Scuola Siciliana, bensì nelle “tre corone” fiorentine: Dante, Petrarca e Boccaccio. Ghinassi (ibidem) fa un’importante precisazione a proposito di Dante:
C’è insomma, già all’inizio della carriera poetica dantesca, un sensibile distacco dalla moda sicilianeggiante. E questo distacco aumenta man mano che D. acquista la consapevolezza della propria maturità stilistica e si accinge a sciogliersi dal nodo che ritenne i suoi predecessori più famosi. Da questo momento in poi la lirica dantesca accoglie un numero limitato di sicilianismi linguistici; e si tratta in buona parte delle forme che filtreranno nella tradizione poetica successiva e diverranno largamente vulgate.
Ovviamente, la Scuola Siciliana rappresentò un tale evento nel panorama culturale italiano che comunque si dimostrava impossibile per Dante fare a meno alle volte di alcune strategie tipiche degli autori siciliani ed ampliate dagli autori toscani, ed infatti la Commedia non ne resta isolata. Ad un’analisi del materiale lessicale delle opere delle altre “due corone”, Petrarca e Boccaccio, risulta lampante che le tracce di sicilianismi sono pochissime se non addirittura nulle, a seconda dell’opera presa in considerazione.
Dopo questa breve analisi possiamo dire che quindi le opere toscane sono soltanto state influenzate dalla lirica della Scuola Siciliana, ma, eccezion fatta per gli autori siculo-toscani (autori toscani che componevano secondo la koiné della Scuola Siciliana), non possiamo comunque parlare di opere in siciliano aulico: parliamo invece di opere redatte in toscano.
Se volessimo ricercare le ragioni che hanno portato alla diffusione di questo mito, dovremmo probabilmente cercarle in ambito separatista-indipendentista. Non è un mistero che questo particolare ambito politico si sforzi di affermare il più possibile una presunta alterità-superiorità della popolazione siciliana rispetto al resto di quella italiana, ed una superiorità di ciò che è siciliano rispetto a ciò che è italiano: è un po’ come se si volesse alienare un certo senso di inferiorità attribuito al siciliano e si volesse nobilitarlo attribuendogli la paternità di una lingua vista come superiore e più prestigiosa. Questa visione di superiorità di una lingua rispetto ad un’altra viene ormai smentita da tutti i manuali di dialettologia e sociolinguistica, tuttavia sempre questa visione contribuisce a diffondere informazioni assolutamente non vere.
Possiamo aggiungere che uno dei fattori che contribuisce a questa generale confusione può essere ricercato nei programmi nazionali sull’insegnamento della storia della letteratura italiana, il quale propone un “calderone” unico per quanto riguarda la letteratura in volgare delle origini di area italiana, e propone tutte le opere, alcune delle quali sono state menzionate all’inizio di questo articolo, tra cui anche ad esempio il Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi, come opere in lingua italiana delle origini, mentre si dovrebbe specificare in maniera più chiara che si tratta di opere in lingue/dialetti diversi.
Per concludere, come rispondiamo alla domanda che abbiamo usato come titolo, ossia, se l’italiano venga o no dal siciliano? Rispondiamo con un secco ‘no’, l’italiano ed il siciliano sono lingue sorelle nate entrambe dal latino volgare, che hanno avuto dei contatti già nel Medioevo, per ragioni commerciali o culturali. D’altronde l’influenza tra lingue vicine è cosa normale, come esistono e sono esistite influenze tra siciliano e napoletano, italiano e napoletano, toscano e lingue gallo-italiche, siciliano e spagnolo, e via dicendo.
Bibliografia
M. Montanari, Storia medievale, Roma, Laterza, 2002 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870 C. Ricci, C. Salinari, Storia della letteratura italiana con antologia degli scrittori e dei critici, Roma, Laterza, 1991 AA.VV., I poeti della Scuola Siciliana, Milano, Mondadori, 2008
Sitografia
G. Ghinassi, sicilianismi, sezione Enciclopedia del sito di Treccani (link qui), già nell’Enciclopedia dantesca del 1970
L’italiano viene dal siciliano? di Cadèmia Siciliana è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.