Dialetto messinese: tre miti da sfatare

Il dialetto messinese è quella varietà geografica (o diatopica, in gergo tecnico) della lingua siciliana che si parla, con lievi variazioni, nell’area della città di Messina, il terzo comune della Sicilia per popolazione dopo Palermo e Catania. Per la caratteristica conformazione del territorio, si può identificare il messinese urbano in una fascia che ricopre approssimativamente l’intera costa jonica fino a Capo Sant’Alessio (da dove l’influenza dei dialetti non metafonetici orientali – catanese – si fa via via più consistente) mentre sul versante nord-tirrenico già all’interno dello stesso comune è possibile notare delle affinità, a livello morfo-sintattico, con le parlate della zona tirrenica messinese. 

All’interno del messinese urbano, le minime variazioni interne interessano soprattutto le aree meno centrali (i cosiddetti “villaggi”) dove possiamo trovare fenomeni conservativi (come il mantenimento della consonante [d] nelle poche parole che in messinese urbano presentano il rotacismo, cfr. oltre) o differenze di pronuncia come per la coppia “mannarinu/magnarinu”. Nonostante ciò, il dialetto messinese si presenta abbastanza compatto e uniforme, e presenta numerose peculiarità che lo fanno risultare diverso alle orecchie dei locutori limitrofi, per le quali particolarità apportano spiegazioni di natura popolare, che hanno portato all’insorgenza di alcuni stereotipi, ormai sempre più diffusi anche all’interno della stessa popolazione cittadina, circa il considerare il messinese “solo un accento” o “un dialetto meno siciliano degli altri”. Ma vediamo quali sono i tre miti più diffusi sul dialetto peloritano.

“Il messinese non è siciliano puro”

Per chi segue l’attività della Cademia Siciliana e in generale chiunque abbia un’infarinatura di linguistica, sa già che questa frase è priva di significato. Non esistono lingue o dialetti puri, cioè del tutto scevri da qualsivoglia forma di influenza esterna. Questa frase molto diffusa anche tra i messinesi stessi è spesso accompagnata persino da un cambio di accento e di vocabolario che verte a favore delle parlate più “cataneseggianti”, considerate, a causa dell’enorme prestigio di cui gode la Città dell’Elefante in tutta l’area orientale, dei dialetti più puri e “veramente siciliani”. Se dovessimo fare un’analisi del lessico del dialetto messinese ci accorgeremmo invero che questo non si discosta pressoché in nulla rispetto agli altri dialetti, pur presentando, com’è normale, delle parole uniche nell’intero panorama siculofono (vedasi il sempre più raro “viatu” sostituito globalmente da “prestu”, o ancora la ricchissima terminologia marinara riscontrabile in tecnicismi come “faleri” per “postazione di vedetta”).

Altra caratteristica fortemente osteggiata è l’assenza del rotacismo, ovvero quel fenomeno che fa sì che una consonante tra due vocali diventi una consonante vibrante, nel caso della lingua siciliana [ɾ] (volgarmente diremmo che diventa una R), in questo caso la consonante [d] (“pedi” [ˈpɛːɾɪ] , scunchiudutu [ˌskʊŋɟjʊˈɾuːtʊ]) tipica sia del catanese che del reggino. Molti messinesi, quando gli vien chiesto di parlare in siciliano “puro”, optano per una scimmiottatura “rotacizzante” del catanese, sfociando spesso in ipercorrettismi, cioè pronunce ritenute corrette che in realtà non lo sono (come la pronuncia del nome della città di Catania stesso, spesso erroneamente reso con [kaˈɾaːnja]). Se osserviamo una mappa dei fenomeni fonetici, però, osserviamo come l’assenza di rotacismo sia cospicuamente diffusa in un vasto areale che ricopre le province non solo di Messina, ma anche di Enna, Caltanissetta e Agrigento.

Un’ultima peculiarità del messinese vista in modo distante dai vari locutori di siciliano è la costruzione della frase ipotetica che viene resa con l’uso del condizionale al posto del pansiciliano congiuntivo. Questa caratteristica unica all’interno dell’intero siciliano viene vista spesso come “impurità” e negli ultimi tempi si nota sempre più spesso l’uso del congiuntivo, soprattutto fra le fasce di popolazione più giovani (e quindi “u farìa” diventa “u facissi”, e le frasi di cortesia si omologano ormai all’uso del congiuntivo, come “s’assittassi” invece del più messinese “mi si ‘ssetta”/“mi s’assetta”). L’origine del condizionale in siciliano è dibattutta: alcuni studiosi, come Rohlfs 1966-1969 ne sostengono l’importazione dal Settentrione d’Italia o d’Europa (come l’Occitania o la Provenza); altri come Bentley 2000 ne sostengono uno sviluppo autonomo. Fatto sta che si tratta comunque di un modo verbale che, sebbene oggi veda una diminuzione nell’uso, è  ampiamente attestato in siciliano, particolarmente nelle fasi più antiche della lingua. Dunque, che sia un modo verbale autoctono o no, non cambia il fatto che lo si possa considerare una forma pienamente siciliana. 

“Il messinese è troppo italianizzato”

Come detto sopra, non esistono dialetti scevri da influenze esterne, e Messina per la sua caratteristica di porto fondamentale nell’assetto geopolitico del Mediterraneo, non ha potuto esimersi dal contatto con le numerose parlate di questa Babilonia marina. Ma se osserviamo bene la sintassi del messinese notiamo peculiarità tipiche del sostrato greco, parlato in città fino al XV secolo e di cui il parente più prossimo ai giorni nostri è rappresentato dal greko o greco di Calabria. Una di queste è indubbiamente l’uso della struttura mi + verbo (“dicci m’u chiama”, digli di chiamarlo; “hê passari mi mi ‘ccattu l’acqua”, devo passare a comprare l’acqua) tipica dell’areale messinese e reggino, e in generale della Sicilia orientale. Al mito si aggiunge di solito un corollario che recita che “dopo il terremoto, il messinese puro si è estinto”, ma da alcune ricerche e dati raccolti da Gaetano Mazza della Cademia Siciliana sui discendenti degli immigrati oltremare prima del devastante 1908, si è potuto notare come le differenze fra messinese pre e post terremoto siano tutto sommato assimilabili alle normali differenze che possono incorrere in più di un secolo di evoluzione in qualsivoglia dialetto (una differenza esemplare è la sostituzione di “chiànciri” in favore di “ciànciri”), sebbene si potrebbe anche tenere in considerazione il fatto che dopo il terremoto si è verificata una certa confluenza di persone provenienti dalla provincia verso la città, portando a contatto tra loro genti che presumibilmente parlavano dialetti diversi, e in questo senso il messinese contemporaneo potrebbe essere stato influenzato dal contatto con numeri ingenti di persone parlanti altri dialetti, certo non tanto diversi da quello che era il messinese urbano fino al 1908, ma neanche in realtà completamente identiche – ma su questo ci proponiamo di condurre ulteriori studi. 

È pur vero che nel messinese sono presenti delle influenze italiane assenti negli altri dialetti (come giucari e giucaturi invece di jucari e jucaturi) ma queste risultano comunque minime se rapportate all’intero sistema linguistico e messinese e siciliano in generale. L’abbandono dell’uso del siciliano soprattutto in periodo postbellico da parte della nascente borghesia ha favorito certamente un’ulteriore influenza dell’italiano che sta portando lentamente all’abbandono dei lemmi peculiari e manchevoli di esatti traducenti che proprio per questo motivo non trovano posto all’interno della lingua italiana. Nei giovani l’uso del messinese è stabile con tendenze decrescenti ma l’italiano regionale è ben influenzato dal sostrato siciliano, nota di una vitalità ancora reattiva del dialetto (tra le fasce di popolazione più giovane, ad esempio, è molto raro l’uso di “fidanzato/a” favorito dal sicilianismo “zito/a”).

La parola più vessata in rapporto alla presunta italianità del messinese è sicuramente “annari”. Nell’intera lingua siciliana, il verbo più diffuso per esprimere il movimento è sicuramente “jiri” e molti reputano quest’ultimo un lemma siciliano puro, e per converso considerano “annari” come un’impurità. Va però ricordato che “annari” è presente in siciliano come geosinonimo di “jiri” da ormai diversi secoli, come ci testimonia il Vocabolarium Nebrissense dello Scobar del 1520, che riporta molti lemmi ancora nella forma antica “andari”, e quindi non ha alcuna importanza che si tratti di un latinismo o di un prestito successivo, vista e considerata la sua solidità e stabilità nell’uso. Possiamo pensare che la diffusione di tale forma in passato fosse verosimilmente più ampia di adesso, e ciò sarebbe intuibile da un antico proverbio catanese che usa la terza persona singolare regolare di “annari” ossia “iḍḍu anna” (il proverbio in questione è “Cu’ voli anna e cu’ nun voli manna”).

“Il messinese è un dialetto calabrese”

Anche questa affermazione, per chi conosce la situazione linguistica italiana, è priva di significato per il semplice motivo che il “dialetto calabrese” non esiste. Come già esposto da Giuseppe Delfino nel suo accurato articolo sul dialetto reggino, la situazione linguistica calabrese non è regolare né tantomeno omogenea: nella parte più meridionale, intorno all’area urbana di Reggio, tra Scilla e Bova, si può parlare di un’exclave linguistica continentale della lingua siciliana, visto che nessuna isoglossa cade all’interno delle acque dello Stretto. Nella restante parte meridionale della Calabria si può continuare a parlare di dialetti appartenenti all’area di influenza siciliana seppur comincino a svilupparsi determinate caratteristiche fonetiche, sintattiche e lessicali che possono determinare (da un punto di vista anche socio-culturale) una autonomia dei dialetti che corrono tra la Piana di Gioia Tauro e la Locride. Anche catanzarese e crotonese sono affini al siciliano, anche se a causa delle loro peculiarità non sono assimilabili al siciliano stesso e quindi al reggino. Infine, le varietà dell’area cosentina sono classificabili all’interno del gruppo linguistico meridionale (che viene anche sommariamente e dozzinalmente etichettato come “napoletano”).

Se osserviamo inoltre il dialetto reggino spesso messo in strettissima relazione con il messinese, possiamo notare delle differenze sostanziali presenti nel primo, come il rotacismo già sopracitato, l’uso di “jiri”, l’uso del congiuntivo per le frasi ipotetiche e la mancanza di assimilazione dei nessi -nd- e -mb-, tutti fenomeni estranei al dialetto messinese ma riscontrabili in altre parlate siciliane. La mancata assimilazione dei nessi -nd- e -mb- è osservabile nei dialetti tirrenici come a Barcellona Pozzo di Gotto e a Milazzo, e ancora nell’area del calatino nel Catanese. Caratteristiche in comune con il reggino sono indubbiamente quelle relative agli stretti rapporti storici, politici e geografici delle due città che si riscontrano soprattutto nel vivace sostrato greco (il già citato mi + verbo ed esempi terminologici come “lissa”).

In conclusione, abbiamo cercato di dimostrare che la “sicilianità” del messinese è indiscutibile andando ad analizzare quelli tra i suoi tratti linguistici che più spesso vengono presi a vessillo dai suoi detrattori di una supposta “asicilianità”, cercando ancora una volta di sensibilizzare sul tema della diversità linguistica, che conduce a esiti che hanno sempre una loro dignità a prescindere da quale sia l’origine di questi tratti divergenti. In tal senso, il dialetto messinese non è in nulla inferiore rispetto alle altre varietà del siciliano, ma anzi a nostro avviso va rispettato e coltivato per quello che è e non per quello che idealmente dovrebbe essere. Per questo è importante conoscere l’origine di alcune sue peculiarità, così da saper ricostruire un quadro più completo ed esauriente del panorama storico, linguistico e sociale della Sicilia, nonché dei vari tasselli che compongono il siciliano.

Bibliografia

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