Il reggino, un dialetto siciliano

Il luogo comune, all’interno come all’esterno della Sicilia, vuole che i dialetti siciliani siano parlati soltanto sull’isola. Questo è vero se prendiamo in considerazione il punto di vista puramente geografico, per cui i “dialetti siciliani” sono l’insieme delle varietà parlate all’interno della Sicilia. Discorso diverso, invece, se prendiamo in considerazione la lingua siciliana nella sua interezza. 

Infatti, il siciliano non è limitato all’isola, ma si estende diatopicamente anche alla punta meridionale della Calabria, in modo particolare alla città di Reggio e i suoi dintorni più immediati, pressappoco tra Scilla e Melito di Porto Salvo/Bova Marina. Questo non è dovuto soltanto alla comune appartenenza al gruppo che la dialettologia italiana tradizionalmente definisce Meridionale estremo (che comprende, oltre alla Sicilia, anche la Calabria centro-meridionale e il Salento).

Leggiamo, ad esempio, ciò che hanno scritto Giacomo Devoto (1897-1974) e Gabriella Giacomelli (1931-2002) ne I dialetti delle regioni d’Italia (1972):

«Favoriti dalla conformazione geografica dell’isola, i dialetti siciliani sono abbastanza unitari […] Tuttavia una propaggine siciliana esce dalla Sicilia per estendersi attraverso lo stretto di Messina nella Calabria meridionale, più o meno in connessione con la provincia di Reggio».

Faceva loro eco il compianto linguista siciliano Alberto Varvaro (1934-2014): 

Rispetto ad altre situazioni romanze, quella sic(iliana). è caratterizzata dalla facilità di identificare la delimitazione del dialetto con i limiti dell’isola (e delle isole minori). Questa convenzione attribuisce dunque un significato assai rilevante allo stretto di Messina, elevato a sede di un confine linguistico che a dire il vero non trova alcun riscontro nella realtà, in quanto i caratteri delle parlate delle due sponde sono del tutto analoghi, come lascia prevedere, a non dire altro, la frequenza dei contatti tra le due rive (fino ad epoca moderna assai più agevoli di quelli con molte località del montuoso e difficile territorio alle spalle di Messina). Il fatto è che tutte le isoglosse che distinguono il siciliano dai dialetti meridionali si distribuiscono a varia altezza lungo la Calabria

Reggio, infatti, è ovviamente sempre stata a stretto contatto con Messina, che può ben dirsi – nonostante i campanilismi di rito – la sua città gemella. Se questo è ovvio a livello geografico, sia in Sicilia che nel resto d’Italia, non lo è altrettanto anche dal punto di vista storico, sociale e culturale, e si ritiene che questo lo si debba sia al senso di sicilitudine, sia per al fatto che la cultura popolare di solito vede la Calabria (ma anche la stessa Sicilia) come se fosse un blocco unico e distinto, nonostante la ben nota suddivisione storica tra Calabria Citeriore (pressappoco l’attuale provincia di Cosenza) e Ulteriore (questa poi, con la Restaurazione, successivamente suddivisa in Prima – cioè l’odierna Città Metropolitana di Reggio – e Seconda). Esempi in tal senso sono, da un lato, il luogo comune siciliano di considerare i messinesi una sorta di “semi-calabresi” (anche se i registri parrocchiali delle due città dello Stretto dimostrano che lo è solo fino ad un certo punto), e dall’altro la cadenza del reggino, che si discosta in maniera sensibile dalla cadenza associata tipicamente e stereotipicamente alle persone provenienti dalla Calabria.

Per dare qualche ragguaglio sulla storia comune tra le due città (ma anche tra Reggio e la Sicilia in generale):

1) Reggio, durante l’epoca greca, aveva molti più rapporti con le città sorelle della Sicilia (non solo Messina, ma anche Catania e Lentini), fondate come questa dai Calcidesi dell’Eubea, che non con le altre poleis dell’Italia continentale (escluse quelle ad essa più vicine, in primis Locri). Anche la stessa rivalità con la dorica Siracusa (temuta anche da tutte le altre città-stato greche del Sud Italia, tanto che con esse formò la Lega Italiota proprio in funzione anti-siracusana) è, tutto sommato, un indizio del fatto che lo sguardo della polis reggina era rivolto oltre lo Stretto;

2) Il tiranno reggino Anassilao (al potere tra il 494 e il 476 a.C.) fu l’unico che unì politicamente le due sponde dello Stretto, le quali, alla sua morte, furono divise tra i suoi due figli, fino alla loro cacciata nel 461. Il nome stesso della città di Messina è legato al fatto che Anassilao favorì l’immigrazione in città di coloni provenienti dalla regione greca della Messenia, terra d’origine dei suoi antenati;

3) In età bizantina, la Calabria era un ducato dipendente dallo stratego (cioè il governatore, con funzioni sia civili che militari, delle singole province – che in quel periodo erano dette temi) di Sicilia, di stanza a Siracusa. Quando quest’ultima, nell’878, fu conquistata dai Saraceni, la sede del Tema di Sicilia divenne Reggio. Nei fatti, fino a quando nel IX secolo non fu eretto il Tema di Calabria (in greco Θέμα της Καλαβρίας), il Θέμα της Σικελίας (“di Sicilia”) era la penisola calabrese;

4) Allo scoppio dei Vespri, i reggini – che anch’essi mal sopportavano il dominio di Carlo I d’Angiò – mandarono un’ambasceria ai messinesi per sollecitare l’intervento di Pietro d’Aragona, ed essere da loro ricevuti. Anche se dopo la pace di Caltabellotta (1302) Reggio rimase agli Angioini, questi ultimi permisero che i rapporti sociali ed economici con i dirimpettai non si interrompessero (ad esempio, la regina Giovanna I e il marito Luigi disposero che la moneta aragonese della Sicilia potesse circolare anche a Reggio e in tutta la Calabria);

5) Durante la rivolta anti-spagnola di Messina (1674-1678), i reggini furono di grande aiuto ai messinesi assediati, fornendo loro i viveri, e per questo pagarono un’analoga crisi economica quando la città del versante siciliano dello Stretto fu punita.

È evidente che questi rapporti non potevano non avere un impatto sulla lingua. Visti i legami tra le due città gemelle, è condivisibile la posizione di Varvaro sul fatto che lo Stretto di Messina non è mai stato un ostacolo a livello linguistico. E, in aggiunta, non soltanto oggi col siciliano, ma anticamente anche col greco. Ancora fino al XIII secolo, infatti, la lingua greca dominava in una larga porzione del Salento, della Calabria meridionale, e della Sicilia orientale (pressappoco l’estensione del Meridione estremo, e ciò non è un caso), e ovviamente anche nel caso del greco si poteva parlare di un continuum dialettale. In altre parole, anche se forse non potremo mai sapere con certezza come suonasse il greco quotidiano parlato a Messina (né quello  della stessa Reggio) in quell’epoca, esso era presumibilmente non troppo diverso dalla varietà greca –  generalmente conosciuta come grecanico (anche se molti locutori, per ragioni che esulano dall’articolo, non gradiscono questo termine) – ancora oggi presente sempre più flebilmente in alcuni comuni del Reggino. 

La ragione per cui è stata introdotta la questione della lingua greca è illustrare un fenomeno comune alle due città (e anche ad alcuni paesi del Catanese come Aci Catena – ma, anticamente, anche allo stesso capoluogo etneo – e in generale a tutta l’area di diffusione del greco nel Tardo Medioevo), che conferma ulteriormente ciò che si è detto sullo Stretto di Messina. In queste aree, infatti, l’infinito è meno usato, e viene sostituito – dopo i verbi del volere, del desiderare, del dovere, e dopo espressioni impersonali che in italiano richiedono il congiuntivo (nonché in unione con prima e senza) – da cu (dal latino quod) nel Salento e da mu/mi/ma/i/u (dal latino modo) in area calabro-messinese. Vediamo qualche esempio, riportato in dialetto reggino:

Vogghiu mi veni! (“Voglio che tu venga!”);
Non pozzu mi vaju! (“Non posso andare!”);
Prima mi nesci! (“Prima di uscire!”);
Senza mi ‘ccatti nenti! (“Senza che tu compri niente!”);
Mi mori! (“Che muoia!”).

È un calco proveniente dal greco medievale, e che ancora oggi si trova in quello moderno (e ovviamente nel greco parlato nel Reggino), dove la particella usata è να. Se traduciamo parola per parola le frasi reggine (e messinesi) nel greco di Calabria e nel neogreco standard della Grecia, la forma non cambia:

Thèlo na èrthise! (Grecia: “Θέλω να έρθεις!”);
Den sònno na pào! (Grecia: “Δεν μπορώ να πάω!”);
Prìta na vghèse! (Grecia: “Πριν να φύγεις!”);
Sènza n’agoràse tìpote! (Grecia: “Χωρίς ν’αγοράσεις τίποτα!”);
Na pethàni! (Grecia: “Να πεθάνει!”).

Bisogna dire, però, che ad oggi in molti contesti esso sta cedendo sempre più il passo all’infinito (sia per influsso degli altri dialetti siciliani, sia di quello dell’italiano): ad esempio, davanti ai verbi vuliri (“volere”) e putiri (“potere”) si stanno imponendo le costruzioni del tipo vogghiu vèniri, vogghiu manciari, pozzu dòrmiri.

Greco e romanzo sono pertanto strettamente intrecciati nello Stretto, e questo non solo a livello prettamente linguistico, ma anche storico. La decadenza della lingua greca a Messina – città che, a partire dai Normanni, ebbe nello Stretto un ruolo egemone rispetto a Reggio – ha riguardato poco dopo anche le terre al di là del Faro (sarebbe resistito soltanto tra le montagne dell’Aspromonte) e, al contempo, l’affermazione definitiva del romanzo siciliano di tipo messinese, preso a modello anche nella parte calabrese Strittu (confermando ancora una volta la tassonomia del reggino). Leggiamo Franco Fanciullo (1950):

«Rimane, per concludere, da dire qualche parola non per spiegare […] ma almeno per rammentare l’allineamento linguistico della Calabria meridionale (politicamente mai staccata dal Regno di Napoli) con la Sicilia piuttosto che con il Sud continentale. Al proposito, il Bonfante arriva a prospettare una romanizzazione recente della regione ad opera di siciliani […]; ma non mi pare ci siano ragioni cogenti in tal senso o, almeno, non nel senso della “drammaticità” implicita nella proposta bonfantiana. Semmai, si sarà trattato d’una colonizzazione di tipo culturale: lo Stretto ha sempre unito piuttosto che dividere e la contiguità geografica può ben aver fatto della Calabria estrema la prima – e poi, in definitiva, l’unica – area “sicilianizzata” del Mezzogiorno. Per altro, non va dimenticato che se in Sicilia la ”reductio ad unum” ha riguardato più varietà linguistiche, in Calabria c’è stato nondimeno il riassorbimento del greco, sempre più veloce a partire, approssimativamente, dal ‘500. E nel mutamento del codice linguistico – pur nei rapporti politici mutati – non sorprenderà che il modello sia stato il vicino romanzo messinese (a sua volta protagonista, con un qualche anticipo, del riassorbimento dell’ultimo greco siciliano) piuttosto che il molto più distante romanzo napoletano».

Ciò non significa, tuttavia, che il reggino sia identico al messinese. Ci sono alcuni fenomeni che lo separano da quest’ultimo, tra cui:

1) La non assimilazione dei nessi -nd- e -mb- in -nn- e -mm-, ormai maggioritaria in Sicilia (fanno eccezione alcuni comuni del Messinese e del Catanese come Barcellona Pozzo di Gotto, Milazzo, e Bronte): (a)undi per unni (“dove”), chiumbu per chiummu (“piombo”);

2) La non assimilazione dei nessi formati da una consonante vibrante /r/ seguita da altra consonante: porta per potta (“porta”), carni per canni (“carne”), etc;

3) La rotacizzazione della d, tipica di altri dialetti siciliani (ad esempio quello di Catania) ma assente a Messina: deci/reci (“dieci”);

4) Come nel resto della Sicilia, anche in reggino è presente il tipo jiri (“andare”), diversamente da Messina dove prevale annari;

5) Come nel resto della Sicilia, l’estensione degli ambiti d’uso del congiuntivo a danno del condizionale: ti facissi (“ti farei”), in contrapposizione al messinese ti farìa;

6) Il pronome personale di prima persona singolare, che è jeu invece del messinese jo;

7) La sonorizzazione di  -nc- in -ng-: mangiari per manciari (“mangiare”).

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