Il siciliano è una lingua o un dialetto? La posizione di Cademia Siciliana

Chi segue da vicino la nostra associazione e le attività che portiamo avanti sa bene qual è la nostra posizione in merito alla questione se il siciliano sia una lingua o un dialetto, tuttavia abbiamo ritenuto di scrivere questo articolo chiarendo una volta per tutte la nostra posizione in merito, mettendola a confronto con quella di buona parte del panorama accademico italiano, nonché con quello anglosassone al quale noi facciamo principalmente riferimento per quanto riguarda determinate definizioni, e riportando le considerazioni che vengono fatte da questi fronti.

Introduzione
Va detto innanzitutto che la linguistica viene annoverata tra quelle che vengono definite “scienze deboli”, in quanto i risultati raggiunti dagli studi in questo ambito alcune volte non sono verificabili e/o ripetibili, e inoltre la posizione su determinati argomenti non è univoca all’interno del panorama accademico mondiale, e le definizioni dei termini “lingua” e “dialetto” ne sono certamente una dimostrazione, in quanto un idioma che può essere considerato una lingua da alcuni accademici, può essere considerato un dialetto da altri (ne è un esempio il monegasco, considerato come lingua nel Principato di Monaco dove è lingua nazionale, ma considerato come un dialetto ligure al di fuori di questo), e il siciliano non sfugge a questo dilemma – che per noi un dilemma non è, ma non lo è di certo neanche per il panorama accademico italiano.
Sulla questione lingua-dialetto il mondo accademico risulta ad oggi diviso in due frange: una più “conservatrice” e “di vecchio stampo” che basa le proprie definizioni su concetti a nostro avviso piuttosto datati, e un’altra “progressista” frutto della rivisitazione e dell’accantonamento di certi concetti che illustreremo più avanti. Grosso modo, dal punto di vista geografico, queste frange possono essere associate da una parte a paesi come l’Italia e la Francia, e quindi a paesi principalmente romanzofoni, mentre dall’altra al mondo accademico anglosassone (in calce a questo articolo sono disponibile le definizioni di “lingua” e “dialetto” tratti da vari dizionari autorevoli).

L’approccio del mondo accademico italiano (e romanzofono)
Per quanto riguarda il mondo accademico italiano, che appartiene alla frangia più “conservatrice”, il discrimine tra lingua e dialetto è il criterio della funzionalità. Ciò significa che un idioma viene classificato come lingua o dialetto in base alle funzioni che questo svolge comunemente nella società di un paese. Secondo questo approccio di tipo funzionale quindi ciò che viene esplicitamente riconosciuto dalle istituzioni come una lingua attraverso provvedimenti legislativi, ciò che viene impiegato nell’ambito dell’amministrazione e della burocrazia di uno stato, e ciò che viene usato anche per parlare di argomenti “alti” come scienza, tecnica, giurisprudenza e via dicendo, è a tutti gli effetti una lingua. Altri fattori che secondo questo approccio determinano l’appartenenza di un idioma alla classe delle lingue sono l’esistenza di un corpus letterario (cioè di un insieme di testi di letteratura che impiegano quell’idioma), di testi di grammatica e di vocabolari. Di conseguenza, tutti quegli idiomi che non risultano normati, non vengono usati in forma scritta, non ricevono il supporto di uno stato e non vengono usati per trattare argomenti di una certa importanza sono da considerarsi dei dialetti. E tuttavia, nonostante il panorama accademico italiano sia tendenzialmente unanime nel supportare questo approccio, non mancano le controversie nell’uso della terminologia, che non appare molto chiaro: sebbene si tenda a fare dei raggruppamenti secondo criteri diversi, ma tendenzialmente basati sui fasci di isoglosse (un’isoglossa è una linea immaginaria che delimita il confine di un singolo fenomeno linguistico), diversi manuali di linguistica affermano che non c’è alcuna differenza tra una lingua e un dialetto se non dal punto di vista sociale. E i vari dialetti (intesi grosso modo come sistema di comunicazione di un singolo insediamento umano, come può essere un comune) che si parlano in Italia vengono considerati ognuno un sistema linguistico a sé stante: il palermitano ad esempio viene considerato come uno sviluppo dal latino indipendente rispetto al dialetto bagherese, a quello scordiense, a quello saccense, etc. Riassumendo: per la maggior parte dei linguisti italiani ogni singolo dialetto è una lingua a sé stante ma non lo si può chiamare lingua se manca di tutto ciò che abbiamo citato sopra.

L’approccio dell’ambito accademico anglosassone
Al contrario, l’approccio del mondo accademico anglosassone è un approccio molto diverso: il principio cardine che viene impiegato nel definire cosa è una lingua e cosa è un dialetto è qui il principio dell’intercomprensione. Supponiamo di avere due parlanti, che chiameremo A e B: se questi due parlanti parlando nel proprio idioma si capiscono a vicenda, e quindi se c’è intercomprensione, ciò significa che i due parlanti parlano dialetti di una stessa lingua, e di conseguenza parlano la loro lingua in maniera diversa perché provenienti da zone diverse, ma in definitiva parlano la stessa lingua, ognuno con le peculiarità della zona da cui proviene. Se invece queste due persone parlando non si capiscono, staranno parlando due dialetti di lingue diverse, e di conseguenza due lingue diverse. Al primo esempio potremmo attribuire ad esempio due parlanti provenienti rispettivamente da Palermo e Catania, mentre al secondo potremmo attribuire due parlanti provenienti rispettivamente da Palermo e Napoli.

Criticità in questi approcci
Illustrati sommariamente questi due approcci, sono numerose le criticità che vogliamo mettere in evidenza, che appartengono sia all’uno che all’altro – ma soprattutto al primo.

1) È estremamente riduttivo classificare un idioma in base alle funzioni che svolge, o meglio, che gli si consente di svolgere, questo perché il fatto che non le svolga non significa assolutamente che non possa svolgerle. Se ad esempio il siciliano venisse riconosciuto dalla Regione Siciliana e gli si desse spazio nella burocrazia, questo svolgerebbe le stesse funzioni dell’italiano in maniera ugualmente efficace. Spesso si oppongono a questa posizione che mira a concedere dignità a un idioma dei falsi problemi, come ad esempio la mancanza di un lessico adeguato, che è un falso problema semplicemente perché si dimentica che la lingua è soprattutto un processo creativo, e le parole che non esistono in un certo idioma possono tranquillamente essere inventate, certamente non a caso: basta vedere una parola come “gastroscopia”, che è stata inventata usufruendo di materiali lessicali del greco antico per indicare un qualcosa che prima della sua invenzione non esisteva;

2) Il riconoscimento di un idioma come lingua da parte del governo di uno stato viene visto come una delle azioni fondamentali affinché un idioma sia davvero una lingua, ma una lingua lo è a prescindere dalle leggi: se, ad esempio, tutti gli stati della Terra approvassero una legge che dice che la Terra è piatta, la Terra rimarrebbe comunque un geoide, non diventerebbe piatta solo perché lo dice una legge; per riportare un altro esempio, le coppie omosessuali che convivono e crescono dei figli esistono, sono una realtà, anche se la giurisdizione di uno stato fa finta che queste non esistano ignorando la realtà dei fatti; allo stesso modo il siciliano è comunque una lingua sebbene non esista una legge che lo riconosce come tale: Tizio Caio non metterebbe in dubbio di essere una persona e non un albero solo perché non esiste una legge che dice espressamente che Tizio Caio è una persona, no?;

3) Come si è visto in precedenza, secondo il primo approccio illustrato uno dei discrimini tra lingua e dialetto è che la prima ha dei testi di grammatica, dei vocabolari, un corpus letterario, e il siciliano, sorvolando sulla qualità di alcuni di questi prodotti evidentemente prodotti da semplici amatori, ha tutte queste cose: basti pensare alla “Grammatica siciliana” del Pitrè, o ai numerosi vocabolari prodotti ad esempio dal Mortillaro, dal Traina e in tempi più recenti dal Varvaro, e ovviamente al corpus letterario che ancora oggi viene arricchito da diversi autori nei più disparati generi, dalla prosa alla poesia fino ad arrivare alla musica. Vediamo quindi come questo approccio si contraddica da solo, non considerando il siciliano una lingua nonostante la presenza di questi testi;

4) Viene dato ampio risalto, come si è visto, alle qualità scrittorie di un idioma: siamo d’accordo certo sul fatto che nel mondo di oggi è importante che un idioma possa essere scritto e che i suoi scritti possano essere fruibili dai parlanti, ma si dimentica troppo spesso una cosa fondamentale, ossia che le lingue sono principalmente mezzi di comunicazione orale, e anzi, sono nativi di questa tipologia; la lingua quindi, prima ancora di essere scritta, ha bisogno di essere parlata perché semplicemente essere parlata e nella propria natura, questa nasce per essere parlata e non scritta (alcuni studiosi stimano infatti che nel mondo le lingue vengano parlate da circa 150mila anni, l’uso della scrittura è quindi molto recente);

5) Della natura della lingua quale strumento di comunicazione principalmente orale è pienamente cosciente il secondo approccio che abbiamo illustrato, che si concentra appunto sulle qualità locutorie di un idioma, e non su qualità che potremmo definire sovrastrutturali, come la scrittura: in questo approccio, nel definire cosa è una lingua si tengono in considerazione le sue qualità intrinseche, come la storia evolutiva, e settori come fonetica, fonologia, morfologia, sintassi, lessico, pragmatica, e via dicendo; le isoglosse diventano quindi strumenti fondamentali per determinare i confini geografici delle diverse lingue;

6) Una criticità, a nostro avviso, accomuna tanto il primo quanto il secondo approccio: mentre il primo, nonostante operi dei raggruppamenti, alla fine dei conti considera ogni singolo dialetto come un sistema linguistico autonomo (dove con dialetto intendiamo il sistema linguistico di un singolo insediamento umano come può essere un comune), il secondo approccio non tiene abbastanza in considerazione fattori come quello dell’appartenenza identitaria o della singola cultura: ci troviamo quindi da una parte ad avere un approccio che considera come una lingua a sé ogni singolo dialetto, come se ogni comune avesse una propria cultura e identità specifica che non ha niente a che vedere con quella dei comuni adiacenti e come se non condividesse con gli altri comuni di una data area una cultura e un’identità di fondo; e dall’altra troviamo un approccio che non tiene per niente in considerazioni fattori extralinguistici come cultura e identità, ma che sono fondamentali a nostro avviso per determinare i confini geografici di una lingua: è l’esempio dell’Atlas of the World Languages in Danger (l’Atlante delle lingue del mondo in pericolo) pubblicato dall’UNESCO, che considera i dialetti parlati in Sicilia, Salento e Calabria centro-meridionale come dialetti di un’unica lingua. Riassumendo, per il primo approccio nell’area di Sicilia, Salento e Calabria centro-meridionale si parlano circa 820 lingue (che però non vanno chiamate lingue ma vanno chiamate dialetti), mentre per il secondo in tutta quest’area si parla una sola lingua e tutti questi dialetti sono varianti di una sola lingua: per noi questi due tipi di classificazioni sono follia pura, perché troppo approssimativi.

Il problema terminologico
In tutto ciò persiste il problema delle terminologie, che purtroppo non hanno univocità all’interno del mondo accademico: abbiamo già visto che cosa intendono i due approcci con “lingua” e “dialetto”, tuttavia esistono anche delle definizioni formali, che non sempre corrispondono alla percezione e alla definizione che assegna la popolazione comune a certi termini.
Per quanto riguarda il termine “dialetto”, non è un segreto che ben prima dell’Unità d’Italia alcuni influenti teorici della questione linguistica associavano questo termine ad aggettivi dispregiativi, associandolo quindi a parlate che andavano considerate come rozze a prescindere semplicemente perché difformi dall’italiano o dal toscano, sebbene, va detto, non sono mai state messe in atto delle politiche di oppressione linguistica se non durante la parentesi del Fascismo, le cui politiche linguistiche non erano comunque paragonabili, ad esempio, a quelle del Franchismo in Spagna: nonostante ciò, l’equivalenza dialetto = rozzo è tuttavia entrata a far parte in maniera prepotente e praticamente permanente all’interno di ampie porzioni della società civile italiana. E questa equivalenza si rivela ancora come effettiva presso la maggior parte della popolazione, nonostante da alcuni decenni il mondo accademico nostrano abbia cercato di correre ai ripari tentando di offrire una definizione di “dialetto” meno ideologica, definizione che ad esempio viene riportata dai diversi dizionari della lingua italiana, che però non corrisponde alla definizione che dà la popolazione comune alla parola dialetto (e quindi possiamo dire che nel non riportare la definizione popolare i dizionari della lingua italiana si dimostrano manchevoli per quanto riguarda questo termine).
Al contrario, se prendiamo la parola “lingua” l’approccio di questa ampia fetta di popolazione è sempre positivo – fintantoché si parla di “lingua italiana”, perché se si parla, ad esempio, di “lingua lombarda” il pregiudizio glottofobo impiantato così profondamente nella cultura generale prende il sopravvento il più delle volte e fa storcere il naso alla gente.

La parola “dialetto” è una brutta parola?
E qua si giunge ad un punto importante: non sarebbe un problema chiamare il siciliano “dialetto”, anche perché il mondo accademico appare concorde sul fatto che un “dialetto” ha la stessa dignità di una lingua, ma questa parità a livello dignitario non esiste per la popolazione generale – e lo stesso mondo accademico fatica a scardinare questa convinzione popolare: ecco perché noi riteniamo che l’utilizzo della parola “dialetto” associata al siciliano non faccia che perpetrare le convinzioni sbagliate della popolazione comune, e l’utilizzo del termine “lingua”, per il prestigio che anche la popolazione comune assegna a questa parola, si rivela secondo noi di capitale importanza. A scanso di equivoci, va precisata una cosa: la definizione di cosa sia “lingua” e cosa sia “dialetto” non è un compito che spetta alla popolazione comune, soprattutto quando questa non abbia degli studi di tipo linguistico alle spalle; la popolazione comune che perpetra l’equivalenza dialetto = rozzo/sbagliato/etc. in un mondo ideale si rimetterebbe alle indicazioni date dal mondo accademico, soprattutto se queste sono corrette dal punto di vista dignitario come quelle che il mondo accademico italiano odierno propugna, tuttavia il pregiudizio è un elemento molto più forte dell’istruzione, per cui sradicare certe convinzioni errate non è mai facile.

A quali entità viene affibbiato il termine “dialetto”
Le entità linguistiche alle quali viene affibbiata la dicitura di “dialetto” possono essere assai diverse tra di loro, e ciò naturalmente porta a confusione: se definiamo il siciliano come dialetto, cosa sono dunque il palermitano, il catanese, e tutti gli altri? Si potrebbe pensare al termine “subdialetto”, ma questo non sembra godere di particolare fama. Come può un dialetto essere un’entità così variegata a livello geografico (il mondo accademico italiano parla ad esempio di dialetto siciliano), ma al contempo essere così definita (ad esempio, dialetto palermitano)? Non v’è dubbio alcuno che il siciliano preso nella totalità delle sue parlate mostra una maggiore variabilità rispetto, ad esempio, al dialetto di Joppolo Giancaxio.

Tirando le somme della questione terminologica
Concludendo il discorso sulla parola “dialetto”, è lampante come questa terminologia sia in realtà problematica, e riteniamo che non possa essere la sola sociolinguistica, che si basa anche e soprattutto su caratteri di tipo extralinguistico, a poter mettere bocca in questa questione, riteniamo che possa farlo quindi anche la linguistica tout court. Ecco perché riteniamo l’approccio del mondo anglosassone, basato sul principio dell’intercomprensione e principalmente sulla variazione diatopica, molto più valido in questo senso, perché il dialetto viene a rappresentare la singola varietà locale circoscritta solitamente all’area del singolo centro abitato nell’ordine del comune (corrispondente alla municipality del mondo anglosassone). Fintantoché l’intercomprensione non viene a mancare tra due dialetti di due comuni diversi siamo quindi in presenza di dialetti della stessa lingua: la lingua viene quindi ad essere quell’insieme di dialetti reciprocamente comprensibili nonostante le loro differenze, che si suppone siano contenute, racchiusi tra due o più fasci di isoglosse. Se tra due dialetti passano una o comunque poche isoglosse rispetto a quelle che troviamo all’interno di un fascio, stiamo parlando di isoglosse intralinguistiche, che vanno quindi a distinguere l’ampiezza di due fenomeni all’interno di una stessa lingua. Ovviamente ciò che abbiamo appena rappresentato è una voluta semplificazione, all’atto pratico il paesaggio linguistico si configura come un continuum senza cambi netti (a meno che non si parli di idiomi afferenti a famiglie linguistiche completamente diverse), ragion per cui la scelta di un’isoglossa che separi una lingua dall’altra è sostanzialmente una scelta arbitraria.
La componente filologica viene invece posta lievemente in secondo piano, in quanto due idiomi possono essere due dialetti in un determinato momento, e più avanti possono essere lingue autonome (si pensi, ad esempio, al latino volgare, i cui dialetti si sono poi allontanati a tal punto da diventare lingue autonome, in alcuni casi molto poco intelligibili gli uni con gli altri), concentrandosi quindi sul piano sincronico più che diacronico.

Conclusioni
In conclusione, riteniamo che sia corretto chiamare il siciliano “lingua”, contestualmente all’approccio del mondo accademico anglosassone, in quanto: si è sviluppato parallelamente ad altre lingue dal latino volgare, differenziandosi ampiamente dalle altre come ad esempio il lombardo, il piemontese o il veneto; perché si differenzia da altre per la sua storia, per l’evoluzione della sua fonetica, del lessico, della morfologia, della sintassi, caratteri che si differenziano ampiamente dai corrispettivi di altre lingue; perché è costituito da un insieme di dialetti la cui posizione geografica è ben determinata, che si trovano circoscritti da fasci di isoglosse e che condividono un’origine comune rintracciabile nel latino volgare parlato sull’isola; perché qualora lo si volesse potrebbe essere usato per tutti gli ambiti in cui si utilizza una lingua nazionale; perché rappresenta la voce di una cultura e di un’identità ben definite all’interno del panorama che potremmo chiamare dei “popoli italiani”.

Definizioni da dizionari di varie lingue

Italiano
– Definizione di lingua secondo Garzanti:
“sistema fonematico, grammaticale e lessicale per mezzo del quale gli appartenenti a una comunità comunicano tra loro”
– Definizione di dialetto secondo Garzanti:
“parlata propria di una determinata area geografica, a cui si contrappone la lingua ufficiale o nazionale”

Francese
– Definizione di lingua secondo Larousse:
“système de signes vocaux, éventuellement graphiques, propre à une communauté d’individus, qui l’utilisent pour s’exprimer et communiquer entre eux”
– Definizione di dialetto secondo Larousse:
“ensemble de parlers qui présentent des particularités communes et dont les traits caractéristiques dominants sont sensibles aux usagers”

Inglese
– Definizione di lingua secondo Merriam Webster:
“the words, their pronunciation, and the methods of combining them used and understood by a community”
– Definizione di dialetto secondo Merriam Webster:
“a regional variety of language distinguished by features of vocabulary, grammar, and pronunciation from other regional varieties and constituting together with them a single language”

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